Inoltrarsi nella «terra di nessuno»

Luigi Toni
L’ambito del creatore è l’ambito del fattibile – ogni pittura si fonda su questo postulato. Il molto da esprimere, il poco da esprimere, la capacità di esprimere molto, la capacità di esprimere poco, tutto si fonde nell’unica e sola preoccupazione di esprimere il più possibile, o nel modo più veridico possibile, o nel modo più bello possibile, secondo i propri mezzi.
Samuel Beckett, Three Dialogues
Il Vire serpeggerà in altre ombre
non nato tremerà per le vie lucide
e la vecchia disanimata mente
sprofonderà dentro la sua rovina[1]Samuel Beckett, 1946
È a metà degli anni Trenta, in un clima culturale diviso fra l’imperante rappel à l’ordre di stampo neoclassicista e/o realista e gli ultimi declinanti fuochi d’artificio delle avanguardie storiche, che Beckett comincia ad interessarsi di pittura. Il suo interesse si rivelerà, per altro, tutt’altro che episodico. Durante il suo soggiorno a Londra, tra il 1933 e il 1935, Beckett ebbe modo di frequentare, spesso accompagnato dall’amico Thomas MacGreevy, tutte le maggiori gallerie della città, dalla National Gallery all’Albert Museum, dalla Wallace Collection alla Tate Gallery. Nella capitale inglese, il non ancora trentenne scrittore comincia a studiare arte in modo molto più attento e approfondito di quanto non avesse fatto fino a quel momento, arrivando addirittura a inviare una richiesta per un posto presso la National Gallery. Ricorderà anni dopo il pittore e amico Avigdor Arikha: «poteva passare anche un’ora di fronte ad un singolo quadro, guardandolo con intensa concentrazione, assaporandone forme e colori, leggendolo, assorbendone i più minuti dettagli».[2] A captare l’attenzione di Beckett, sono in effetti, apertamente, i processi mentali con cui l’immagine pittorica viene costruita, e, insieme, le diverse problematiche legate alla rappresentazione del mondo esterno in quanto tale, nella consapevolezza di una totale estraneità del paesaggio dal mondo dell’uomo. Esemplari, a suo avviso, sono i lavori di Cézanne, a lungo studiati presso la Tate Gallery, nel 1934. A MacGreevy, che a Parigi, nel 1928, l’aveva introdotto nel ristretto gruppo di persone riunite intorno a James Joyce, scriveva che «Cézanne […] sembra sia stato il primo a vedere il paesaggio e a rappresentarlo come materiale di un ordine strettamente peculiare, incommensurabile con qualunque espressione umana. Il paesaggio atomistico senza velleità di vitalismo, paesaggio con personalità à la rigueur, ma personalità secondo i suoi propri termini».[3] Una crisi della rappresentazione, questa di Cézanne, che rifletteva forse l’oscura profezia hegeliana della morte dell’arte e in cui, in ogni caso, Beckett intravede il segno di un’alienazione dell’uomo stesso rispetto al proprio mondo. Il paesaggio non è più “animato”, come poteva esserlo in Salvator Rosa o Salomon van Ruysdael [4] (di cui amava in particolare La fermata esposta alla National Gallery of Ireland). Sarebbe ormai impossibile, oltre che cinicamente fraudolento, rappresentarlo ancora in quel modo, trascurando la totale asimmetria «rispetto alla vita di un ordine così differente come può essere un paesaggio, ma anche rispetto alla vita del suo stesso, anche rispetto alla vita […] che operava in lui».[5] Il tema del paesaggio, questa volta in rovina, tornerà prepotente anche in seguito, a partire dalla dirimente immagine della distruzione di Saint-Lô, archetipale capitale delle rovine in cui Beckett si troverà temporaneamente a vivere dodici anni dopo.
Samuel Beckett, Petersfield, 1938

Gli anni londinesi furono però anche quelli della lunga terapia psicoanalitica intrapresa con Wilfred Ruprecht Bion (tra il Natale del 1933 – anno della morte del padre – e il gennaio del 1936: cento trentatré sedute, tre volte la settimana).[6]
Affetto da gravi disturbi psicosomatici, attacchi di panico e crisi notturne d’angoscia, Beckett, sempre su consiglio dell’amico MacGreevy, decide di rivolgersi al giovane psicoanalista britannico, che diventa così per due anni il suo «habitué onirico».[7] Bion, che invita tra l’altro Beckett a prendere appunti dai suoi sogni, volle sperimentare con lui la cosiddetta analisi riduttiva, che puntava a far emergere i legami dinamici tra i sintomi e i traumi del passato, ricorrendo alla libera associazione e, appunto, all’analisi dei sogni. Anni dopo, sarà Beckett stesso a ricordare questa nuova forma di analisi. «Mi stendevo sul lettino e cercavo di risalire nel mio passato. Credo che ciò aiutasse. Credo che mi abbia aiutato a controllare il panico. Di certo me ne venni fuori con alcuni ricordi straordinari di permanenza nel ventre di mia madre. Ricordi intrauterini. Ricordo la sensazione di essere in una trappola, di essere stato catturato e di non riuscire a scappare, di gridare che mi facessero uscire ma che nessuno poteva sentire, nessuno stava ascoltando. Ricordo di provare dolore ma di non poterci fare nulla».[8] L’analisi portò alla luce il complicato e conflittuale rapporto con la madre (rapporto che culminerà nel famoso momento della rivelazione nella casa materna,[9] quando «anni di dubbi, di ricerche, d’interrogativi, di fallimenti […] acquistarono d’un tratto senso, e la visione di quel che doveva fare s’impose come un’evidenza»)[10] ma anche una forte tendenza alla chiusura e all’isolamento,[11] secondo uno stile definito dall’autore stesso un «abietto quietismo autocentrato».[12]
L’abbandono, nel dicembre del 1931, della tranquillità della carriera accademica[13] aveva sprofondato Beckett in un circolo di oscuri sensi di colpa (non ultimo quello dovuto alla dipendenza economica dalla madre)[14] e in un’infelicità senza riscatto, a cui tentò di trovare una giustificazione sul piano filosofico.[15] Dopo due anni, visti gli insoddisfacenti risultati della terapia,[16] sarà lo stesso Beckett a troncare bruscamente. Anziché risolvere o migliorare la situazione, questa decisione fece al contrario emergere il timore per un crollo imminente, la paura per quello che Bion avrebbe definito «un cambiamento catastrofico». Essere sull’orlo di una catastrofe mentale, aveva avvicinato Beckett a quel punto di non-ritorno «che non era in grado di chiamare scompenso o depersonalizzazione, ma il cui presentimento chiaroveggente lo riempiva di spavento».[17] L’impossibilità di definire in modo netto e definitivo le frontiere del proprio io e della propria identità, il movimento oscillatorio tra il “dentro” e il “fuori” (secondo il concetto di Io-pelle[18] elaborato da Anzieu), la morbosa regressione ad uno stato di elementare percezione sensibile e il proliferare di voci che fanno sciamare ricordi e ossessioni[19] sono tutti elementi che finiscono per ingombrarne la psiche ed otturarne pericolosamente le capacità percettive – e sono tutti elementi che, va ricordato, ritorneranno in tanti dei suoi successivi personaggi.[20]
Samuel Beckett e Alberto Giacometti nel cosiddetto laboratorio telefonico, 1961

Ecco che il corpo si rivela come ciò che è di per sé incodificabile, come ciò che, per sua natura, eccede – puro significante irriducibile, in quanto senso, ad un’unica “ecceità”, sempre trascendente rispetto ai segni che lo manifestano. È quasi una ricerca messianica basata sulla pura intuizione, oltre che sulla coscienza, una tensione che punta a comprendere in qualche modo la forma intima dell’apparenza del mondo. Non basta avvertire il senso della catastrofe: occorre esperirla, passarci attraverso. Da Baudelaire (di cui Hamm, in Finale di partita, cita un sonetto: Recueillement)[21] in poi, si apre per l’uomo moderno una crisi sostanziale e irreversibile dell’esperienza. Si potrebbe addirittura dire che la poesia moderna, l’arte moderna tutta, si fondi proprio su questa mancanza-di/mancata esperienza, su questo venir meno dell’attrito di fronte al reale. Ogni volta si torna ad interrogare il contemporaneo nel tentativo di far emergere l’impensato, la possibilità di una sopravvivenza sotterranea e ostinata. Voltandosi intorno non si vede altro che una serie di macerie ridotte a frammenti, una scatola di arnesi vecchi e logori che non si sa più come usare. Ed è proprio nel frammento che si trova quell’«entusiasmo per l’affermazione di una singolarità che è capace di spezzare la continuità del mondo, di infrangere la trama, il tessuto, l’intreccio che teneva insieme la grande catena dell’essere».[22] Ma facciamo un passo indietro. Un anno prima, su suggerimento dei due redattori di Bookman, Beckett aveva scritto il breve saggio Recent Irish Poetry,[23] sotto lo pseudonimo di Andrew Belis (il nome della nonna materna). Il testo si presenta come un tentativo di individuare i più interessanti tra i «nuovi» poeti irlandesi, tra i quali Beckett incluse Thomas MacGreevy, Lyle Donaghy, Arland Ussher, Denis Devlin e Brian Coffey. I nuovi poeti si distinguevano dai passatisti, denominati «antiquari» o «crepuscolari celtici», per il loro ispirarsi a modelli europei, Corbière, Rimbaud, Laforgue, i surrealisti, e su fino a Eliot, a Pound. La cosa che però più ci interessa qui è il fatto che Beckett, già in questo saggio, individua «la cosa nuova che è successa», identificandola proprio con la rottura tra l’istanza del soggetto e quella dell’oggetto, con il vero e proprio «collasso dell’oggetto quotidiano, storico, mitico o spettrale… – la rottura delle linee di comunicazione».[24] Per Beckett, solo l’artista consapevole di tale frattura può misurare lo spazio che lo separa dal mondo oggettuale. Assumere questa consapevolezza della catastrofe e della frattura irreparabile, del vuoto tra uomo e mondo[25] significa inoltrarsi in uno spazio definibile come «terra di nessuno».[26] È in questa terra di nessuno che vanno collocate opere come The Waste Land di Eliot o come i dipinti di Jack B. Yeats. Ed è proprio a partire da quest’assunzione del vuoto e della catastrofe che Beckett avrebbe cercato in letteratura e in pittura i segni di questa «terra di nessuno», come chiamò a lungo il suo lavoro in progress («la frattura non era più solo tra soggetto e oggetto, ma tra uomo e uomo, e tra uomo e sé stesso»).[27] Dieci anni più tardi, questa riflessione sulla frattura tra soggetto e oggetto troverà il suo “correlativo oggettivo” nel paesaggio di una Saint-Lô rasa al suolo dall’esercito tedesco. L’esperienza di questa “capitale delle rovine” sarà l’evento che segnerà definitivamente il suo passaggio dalla coscienza di una catastrofe ontologica alla coscienza di una catastrofe storica.
Durante la guerra, grazie all’invito dell’amico Alfred Péron (resistente, catturato nel 1942 dai nazisti, deportato nel campo di Mauthausen e morto due giorni dopo la propria liberazione, il 1 maggio del 1945), Beckett era entrato a far parte della cellula Gloria SMH della Resistenza francese, con mansioni di interprete. Nell’agosto del 1942, la soffiata di un infiltrato del controspionaggio tedesco aveva portato all’arresto di molti componenti della cellula. Beckett e la sua compagna, Suzanne Déchevaux-Dumesnil, erano riusciti a fuggire precipitosamente dal proprio appartamento parigino poco prima dell’irruzione della Gestapo, riparando prima a Vichy e poi a Roussillon d’Apt, un tranquillo villaggio nel Vaucluse. Qui Beckett lavora come bracciante agricolo, presso la fattoria della famiglia Aude, sobbarcandosi i lavori più pesanti, dalla raccolta del grano a quella della frutta, dalla cura della vigna al lavoro nei campi. Pur scrivendo solo di notte, Beckett riuscirà comunque a portare a termine Watt, l’ultimo romanzo scritto in inglese. Nell’ottobre del 1944, dopo la liberazione, era tornato a Parigi, nel suo appartamento di Rue des Favorites (dove, sembra, compose Il mondo e i pantaloni). Nell’aprile del 1945, parte per Dublino dove ritrova Alan Thompson, medico al Richmond Hospital. L’amico lo informa che la Croce Rossa Irlandese sta organizzando un ospedale a Saint-Lô, città devastata dai bombardamenti. Beckett si offre immediatamente volontario presso la Croce Rossa Irlandese. Vi lavorerà per sei mesi, dal maggio fino all’ottobre del 1945, in qualità di ufficiale d’intendenza, magazziniere, interprete e autista, condividendo la spossante fatica e la sconvolgente esperienza con tutto il personale dell’ospedale. L’ospedale fu inaugurato ufficialmente solo più tardi, il 6 aprile del 1946; il 10 giugno Beckett scrive il testo de La capitale delle rovine,[28] spedendolo all’ufficio radiofonico irlandese perché potesse essere letto e mandato in onda, al fine di sensibilizzare i compatrioti. Non risulta, però, che Beckett sia mai riuscito a far leggere il testo alla radio e che tale testo sia mai stato diffuso. La capitale delle rovine non può essere letto solo come un puro e semplice atto informativo. Ci appare invece come un vero e proprio atto di resistenza, operato da una voce posta di fronte alla visione e al «senso immemorabile d’un concetto d’umanità in rovina»: «È proprio di questo che la voce ci parla. Come se la terra si incurvasse sotto il peso di quanto la voce ci dice, sotto il peso di quanto viene a mettersi sotto terra a suo tempo e a suo luogo. E se la voce ci parla di cadaveri, di tutta la stirpe dei cadaveri che prende posto sotto terra, in quello stesso momento il minimo fremito di vento sulla terra deserta, nello spazio vuoto che sta sotto i vostri occhi, il minimo vuoto in questa terra, tutto questo acquista un senso».[29]
Beckett a Tangeri
1978

La presente raccolta riunisce tutti gli scritti che Beckett, in una maniera o in un’altra, ha pubblicato sulla pittura. Oltre a questi scritti, sono stati inseriti il testo radiofonico di cui si è scritto in precedenza, La capitale delle rovine, e due testi relativamente brevi, redatti in francese e rimasti a lungo inediti.[32] Solo apparentemente eterogeneo, questo materiale acquista una sua più profonda coerenza proprio all’ombra di quella domanda, come dar forma all’informe, per rispondere alla quale lo scrittore irlandese abbandona la lingua materna, l’inglese («una lingua terribilmente astratta»), per adottare il francese, lingua «straniata»[33] più che straniera, scelta «perché conservava un profumo d’estraneità […]» e perché «permetteva di sfuggire agli automatismi connaturati all’uso della lingua materna».[34] È evidente che il bisogno e la ricerca di Beckett sono puntati alla creazione di una lingua che gli permetta di creare e distribuire buchi e crivelli e di far passare tutto quello che dietro ad essa si agita e nasconde. Questa lingua si costituisce finalmente attraverso la sofferta conquista di una cosciente rarefazione stilistica – come risulta evidente guardando le differenze tra i primi testi d’impronta nettamente joyciana e le brevi, brevissime epigrafi occasionalmente scritte per Avigdor Arikha e per Bram van Velde nel corso degli anni Sessanta. Se si escludono i primi due testi raccolti in questo volume, testi che, composti negli anni Trenta, ricorrono ancora a quella tecnica ad innesto tipica dei primi esperimenti giovanili, la prima prova ufficiale di Samuel Beckett in lingua francese fu proprio La pittura dei Van Velde ovvero Il mondo e i pantaloni.[35] Pubblicato sui Cahiers d’Art e centrato sui due pittori olandesi Geer e Bram van Velde (che tra il marzo e l’aprile del 1946 avrebbero tenuto una retrospettiva rispettivamente presso la galleria Maeght e la galleria M.A.I.), il testo ha una datazione incerta. La sua stesura può essere collocata all’incirca ad un anno prima, all’inizio del 1945. James Knowlson, il più accreditato biografo di Beckett, definisce l’inizio del 1945[36] una «data non improbabile», mentre altri studiosi spostano invece più avanti, tra l’aprile e il maggio dello stesso anno, se non addirittura all’ottobre, al momento del rientro da Saint-Lô, la composizione del testo.[37] In ogni caso, qualunque possa essere la data esatta, non ci sembra affatto arbitrario attribuire a Il mondo e i pantaloni (su cui Beckett esprime un giudizio tardo e fin troppo severo: «merita l’oblio») una doppia importanza: collocandosi tra lo straordinario Watt, finito nel 1944, e Mercier e Camier, primo romanzo scritto direttamente in francese e terminato nel 1946, questo testo segna, da una parte, l’inizio dell’impiego del francese come lingua della creazione (letteraria) e, dall’altra, apre quella stagione che Knowlson definisce della “frenesia di scrivere”, gli anni, cioè, che vanno dal 1946 al 1953.
Il più lungo e complesso degli scritti sull’arte di Beckett deve il suo strano titolo alla storiella del sarto gnostico[38] posta ad epigrafe.
IL CLIENTE: Dio ha fatto il mondo in sei giorni e lei, invece, in sei mesi, non è riuscito a farmi un dannato paio di pantaloni!
IL SARTO: Però, signore, guardi il mondo, e guardi i suoi pantaloni!
Ripresa con una leggera variante dieci anni dopo, in Finale di partita,[39] questa storiella funge da introduzione al tema della creazione e a quello della responsabilità del creatore, dell’artista. A quest’ultima figura, Beckett chiede un impegno diverso, non riconducibile, o non cristallizzabile, nel concetto semplice di “mestiere”. Il lavoro artistico deve essere accurato ma senza trucchi o effetti spettacolari, «complessamente diabolico» ma anche «estremamente agile e leggero», in grado, insomma, di insinuare «più di quanto non affermi», un lavoro, insomma, «che sia positivo solo in rapporto all’evidenza fugace e accessoria del grande positivo, del solo positivo, del tempo che trascina via».[40]
In pittura, tutto può essere oggetto, «compresi gli stati d’animo, i sogni e persino gli incubi, a condizione che la trascrizione venga effettuata con mezzi plastici». La ricerca della forma, invece, non è fine a sé stessa (come in certe avanguardie, come nel surrealismo, per esempio) e non è rivolta a trovare soltanto un mezzo per realizzare l’opera. Siamo all’eterno (e falso) problema della contrapposizione tra autotelìa ed eterotelìa.[41] Quindi, per cominciare, parliamo d’altro. E allora forse è bene ripartire proprio da quella strana figura che circola fra le righe, fra le pagine: l’appassionato d’arte, uno di quei personaggi che «se lo sognano i pittori, uno che arriva con le braccia penzoloni e che con le braccia penzoloni se ne va, dopo essersi riempito la testa di quello che ha creduto d’intravedere».[42] È in fondo questa figura che può giustificare l’arte in quanto cosa pubblica, in quanto forma di comunicazione. Ed è appunto questa la posta in gioco, la questione che a Beckett preme innanzitutto chiarire. E lo fa ricorrendo ad una complessa macchina di erudizione (ancora una scoria del periodo joyciano) e ad una retorica ponderata, costruendo inversioni e affermazioni/negazioni («gli si dice»/«non gli si dice mai»), fingendo dialoghi (che lasciano presagire i futuri Tre dialoghi, in cui le conversazioni con Georges Duthuit furono in realtà scritte dal solo Beckett), mescolando discorso alto e discorso basso, autorità e oscenità. Ricombinando e rielaborando le modalità abituali ed abitudinarie della critica d’arte – l’estetica generale da catalogo ragionato, l’aneddotica alla Vasari o da rivista patinata ecc. Cosa rimane allora? Davvero soltanto il lasciarsi andare ad una chiacchiera confusa e sgradevole? Tutt’altro. Beckett affronta il nodo della critica d’arte possibile nell’unico modo in cui può essere ancora pensabile, anche a costo di lasciarsi «coglionare dal fatto di scrivere sulla pittura» (e subito dopo aggiunge, sarcastico: «a meno di non essere dei critici d’arte»).[43] La casella vuota intorno a cui tutto il discorso ruota, è sempre e soltanto il quadro, il ritorno al quadro, il ritorno davanti al quadro.
Beckett opta (naturalmente) per la linea astratta dell’arte, all’epoca ancora invisa a molti, scegliendo ancora una volta il fronte di un nuovo “come” e di un nuovo “cosa” del dire pittorico, appoggiando quella «deformazione [che] è il rifugio di tutti i falliti». Ecco, ancora una volta, che il congegno retorico beckettiano prende a nascondere, ironicamente, il proprio autentico proposito, e a macchinare, intorno al proprio avanzare, negazioni che controbilanciano in maniera beffarda e sorniona quanto sarebbe stato da acquisire: l’appassionato d’arte «non si avvicini all’arte astratta. È prodotta da una banda di imbroglioni e di incapaci».[44]
Ma, alla fine, allora, che cosa rimane da poter dire di un quadro? Risposta plausibile: rimane precisamente tutto quello che non viene mai detto all’appassionato d’arte, «esistono solo i quadri […]. Tutto quello che lei potrà mai sapere d’un quadro, è quanto le piace».[45]
E che cosa vede Beckett nei quadri dei van Velde? Di certo, non una pittura che funzioni come una presa di coscienza. La loro non è una pittura fondata sul pensiero, («non ci si può immaginare una pittura meno intellettuale di questa»), ma sulla visione. Una visione che si costruisce sui dati elementari del reale e che non tende ad ordinarli ma a registrarli, puramente e semplicemente. Oppure: una visione che tende a non ordinare i dati del reale, perché nell’elementare è impossibile mettere ordine, è impossibile far intervenire un ordine. O lo si mostra o non lo si mostra affatto. Secondo Beckett, la pittura dei van Velde si inoltra solitaria in quella «zona dell’essere che è sempre accantonata dagli artisti come qualcosa di inservibile: come qualcosa per definizione incompatibile con l’arte»,[46] esponendosi, con questo, consapevolmente (anche) al fallimento.
Nel giugno del 1948, Beckett tornerà ad occuparsi dei due fratelli. Questa volta, però, si occupa di «ridire quello che è già stato detto, […] nello spazio più ridotto».[47]
Il problema qui sembra proprio la natura dell’impedimento, ossia l’impossibilità stessa di esprimere, tanto in pittura che in letteratura – è la duplice natura di questo impedimento: l’impedimento-occhio e l’impedimento-oggetto. Quell’impedimento non faceva parte del mondo della rappresentazione e ora è parte integrante del processo creativo. La pittura dei van Velde, libera da ogni preoccupazione critica, è maturata fino a diventare una pittura che dipinge ciò che impedisce di dipingere, fino a rifiutare il già dato e a rinnegare il vecchio rapporto tra soggetto e oggetto: in altri termini, una pittura che costruisce un’immagine capace di «cattura[re] tutto il possibile per farlo saltare in aria».[48]
Abbandonata ogni nostalgia nei confronti della «vecchia ingenuità», la loro pittura cerca ora un nuovo

Samuel Beckett e Geere Van Velde
rapporto e un nuovo oggetto: la cosa “nuova”, immobile nel vuoto, l’oggetto puro.
Il tema dell’impossibilità dell’esprimere è ancora il fulcro problematico dei Tre dialoghi, dove riecheggiano le conversazioni private tra Beckett e Georges Duthuit, direttore della rivista transition (tra i due, dal 1948 fino al 1952, un lungo carteggio),[49] mescolandosi alle reciproche opinioni sull’arte, adattate naturalmente in maniera del tutto fittizia alla forma dialogica. Una delle questioni più famose affrontate da Beckett, nel dialogo su Tal-Coat, è l’insofferenza nei confronti di un’arte che si limita a portare più avanti il «già detto» (e qui include anche Matisse), scombinando un po’ l’ordine nel campo del fattibile e propendendo per «un’arte che se ne allontana con disgusto, stanca delle proprie misere imprese, stanca di far finta di essere in grado, stanca di essere in grado, stanca di portare sempre a compimento un pochino meglio la stessa cosa, stanca di avanzare a piccoli passi su una strada desolata».[50]
Alla domanda di Duthuit, Beckett risponde con una memorabile affermazione: «Esprimere il fatto che non c’è niente da esprimere, niente con cui esprimere, niente da cui partire per esprimere, nessun potere di esprimere, nessun desiderio di esprimere e, al tempo stesso, l’obbligo di esprimere».[51] Di fronte al disastro, non si può che costruire l’opera, e l’obbligo ad esprimere riflette evidentemente un’esigenza etica più rigorosa, «una lezione di misura, di esattezza e di coraggio».[52]
Non c’è più nulla dell’eroismo della tragedia classica, c’è solo un ultimo, inesorabile imperativo etico di fronte al Negativo, un’ultima possibilità residuale. Se ci si muove intorno al nodo della catastrofe, in un mondo che è sempre e comunque sul punto di dissolversi, quest’ultima possibilità non potrà che fondarsi sul coraggio di «affrontare l’assurdità e l’insensatezza dell’universo con la forza d’animo di chi possiede la capacità di sopportare fino in fondo terrore e vacuità».[53]
Non si tratta più, come in Proust, di edificare cattedrali (alla fine, le cattedrali diventano sempre un «campo di rovine»), ma di esprimere, malgrado tutto il caos della realtà, malgrado la stringente probabilità di un fallimento, l’apertura di una nuova occasione. L’artista è proprio colui che osa fallire come nessun altro, perché sa che il sottrarsi a questo compito sarebbe diserzione. Il fallimento è il suo mondo. E questo mondo ha come esigenza assoluta quella di enunciare mondi possibili, fino allo sfinimento fisiologico, fino a quando «esausto non può più possibilizzare».[54]
In uno degli ultimi saggi, dedicato all’amico pittore Henri Hayden, Beckett dirà, non nascondendo il proprio imbarazzo: «mi chiedono delle parole, a me che non ne ho più, a me che non ne ho quasi più, su una cosa che le rifiuta». E le parole si faranno effettivamente sempre più rarefatte. Basti seguire, in queste pagine, l’evoluzione che porta da Il mondo e i pantaloni ai due brevi, brevissimi testi su van Velde (1961) e su Avigdor Arikha (1966), ultimo atto di questo lungo ripensamento sulla produzione artistica, tutto svolto nella sottomissione a quella fedeltà al fallimento che era stata del più grande dei due fratelli pittori. Rinunciando ad ogni automatismo estetizzante proprio in virtù dell’obbligo di esprimere quella stessa impossibilità. Per finire ancora, restando fedele a quella «terra di nessuno» come territorio privilegiato dell’artista.
Luigi Toni
Scrittore e traduttore italiano. Dal 2021 (in corso) collaborazione alle pagine italiane della piattaforma online OrientXXI fondata in Francia da Alain Gresh