La critica nell’Età del caos
Giampiero Marano
Nell’immenso arco di tempo, più di trentamila anni, che separa le prime Veneri paleolitiche dall’Epistola a Cangrande, l’uomo europeo vive ancora in sintonia con le civiltà sviluppatesi negli altri continenti e, come queste, vede nell’opera d’arte un’occasione di culto e conoscenza, un veicolo di avvicinamento al divino. Il principio essenziale rimane sempre lo stesso – “finis totius et partis est removere viventes in hac vita de statu miserie et perducere ad statum felicitatis” -, anche se recepito e articolato in mille forme diverse a seconda del luogo e dell’epoca.
Il ritorno al Vivente avviene seguendo regole tradizionali codificate: in un primo momento l’artista dovrà concentrarsi in se stesso per cancellare ogni negatività mentale, poi visualizzare la forma ideale da riprodurre nell’opera, identificandosi con essa. Le forme canoniche di cui l’artista si serve e i criteri a cui obbedisce nella sua attività non sono né arbitrari né casuali ma hanno una matrice iniziatica e definiscono vere e proprie tecniche di risveglio. Da ciò derivano sia la caratteristica impersonalità delle opere d’arte tradizionali, frutto non dell’inerzia e della passività ma di una superiore esuberanza cognitiva, sia la continuità stilistica nel tempo, segno del livello di elevata consapevolezza raggiunto dagli autori e non di scarsa padronanza delle tecniche o, peggio, di una presunta arretratezza delle concezioni estetiche.
Attraverso la parola o la materia l’arte arcaica raggiunge la dimensione in cui l’interiorità si incontra con l’universo, mentre quella che mira soltanto a piacere è del tutto inutile; scrive Platone nel Timeo, con riferimento alla musica: “avendo movimenti affini ai cicli dell’anima che sono in noi, a chi si giovi delle Muse con l’intelletto contemplativo (nous), essa non sembrerà data per un piacere irrazionale ma come alleata per ridurre all’ordine e all’accordo con se stesso il ciclo dell’anima che in noi fosse stato discordante”.
Ma l’arte tradizionale non giova all’anima più che al corpo, come dimostrano gli oggetti d’uso molto comune (spille, orecchini, bottoni, fibbie ecc.) recanti simboli religiosi, confezionati ancora oggi dall’artigianato “etnico”: perciò nei trattati sanscriti le opere vengono considerate addirittura una specie di “cibo” (anna) e l’esperienza estetica che ne consegue è paragonata a un “sapore” o un “aroma” (rasa). L’arte tradizionale imita la natura nel suo operare e non nel suo apparire. Mutuando i termini dalla filosofia di Spinoza, si può concludere che essa sia una riproduzione della natura naturans più che della natura naturata. L’opera correttamente eseguita partecipa in modo immediato della forma ideale che essa imita: è il concetto greco di methexis, che ritroviamo nel dogma cattolico della transustanzazione eucaristica. Un semplice oggetto materiale, la pietra di una statua cultuale o il pane dell’eucaristia, può essere investito del suo crisma e diventare la cosa stessa che esso rappresenta soltanto per mezzo del rito che, se compiuto correttamente, getta un ponte fra l’uomo e Dio. La preoccupazione quasi ossessiva per il rituale, che accompagna tutti i momenti della vita nelle comunità tradizionali, si spiega bene, come osserva Eliade, con la convinzione che “la realtà si acquista esclusivamente in virtù di ripetizione o di partecipazione; tutto quello che non ha un modello esemplare è ‘privo di senso’, cioè manca di realtà” (corsivi dell’autore). In ultima analisi, nella concezione tradizionale e normale dell’arte l’opera è un oggetto rituale pregno di significato simbolico e dotato del potere di evocare la grazia e la presenza di Dio, reintegrando così da una parte l’artefice e il fruitore (o meglio, la comunità dei fruitori) nel tempo primordiale, dall’altra adempiendo alla funzione pratica e quotidiana cui è solitamente destinata.
Il legame fra cielo e terra, come pure il rapporto fra arte e popolo (e non a caso: “quale argomento più popolare di Dio?”, si chiede Gramsci), va in frantumi con l’avvento della modernità. In alcune pagine magistrali Titus Burckardt riassume le tappe del cammino relativamente breve durante il quale stili e movimenti si avvicendano con velocità crescente, come sulla china di un precipizio. Il Rinascimento volge le spalle al Principio e all’esaltante monotonia mantrica dell’arte tradizionale. Gli argini crollano, l’io prometeico si libera, irrompono il divenire, il caos dello psichismo, il genio individuale. L’arte moderna, fatalmente profana e dissacrante anche se sceglie soggetti sacri, liquida il simbolismo tradizionale: l’introduzione della prospettiva, il naturalismo, lo sviluppo della statuaria autonoma segnano il trionfo del punto di vista individualistico e la distruzione dell’ordine cosmico teocentrico. All’intuizione subentra il sentimento, alla contemplazione il sistema razionalistico: l’accelerazione della discesa si traduce prima nell’irrequietezza, nel dinamismo e nelle fantasmagorie del Barocco poi nella reazione neoclassica con la sua vacua retorica greco-romana essenzialmente borghese.
Per almeno tre secoli il nuovo regime “immunitario” della modernità censura e congela, senza sforzarsi di equilibrarle dinamicamente in una sintesi espressiva, sia le spinte dell’interiorità verso l’alto sia l’irruzione delle forze infere, un tempo controllate e trasfigurate ritualmente. Nega in pari misura la disciplina sapienziale e la follia carnevalesca. Si mantiene a mezz’altezza, a distanza di sicurezza da ogni assoluto terrestre e celeste; per questo Albert Camus considera l’arte moderna frutto di tirannide e schiavitù: non c’è vera libertà creativa nella paura. Ma è chiaro che l’immunizzazione rappresenta una parentesi effimera, un’anomalia transitoria. Dalla fine del Settecento in avanti il castello di carte della nuova estetica crolla e l’arcaico dimenticato riaffiora a tratti, sia pure nella cornice generale di un sinistro sprofondamento nell’Acheronte dell’inconscio e della progressiva disumanizzazione dell’arte.
W. Schlegel prefigura una sorta di poetica perenne alludendo allo “spirito indelebile della poesia” che si manifesta in modi differenti in base al contesto storico e geografico, mentre Francesco De Sanctis rievoca la dottrina arcaica e tradizionale quando definisce l’arte come rappresentazione delle cose “secondo la loro ripercussione nel cervello”. Il critico sostiene giustamente che “il grande artista obblia sé nelle cose e più vi si obblia e più quelle sbalzan fuori vive e vere”: eppure questa importante acquisizione conoscitiva non è così solida da permettergli di apprezzare il Paradiso dantesco.
Nel Novecento, e solo per limitarci senza pretese di completezza alla cultura italiana (il cui storico “ritardo”, a dispetto di un vieto topos autodenigratorio, potrà offrire contributi insperati anche alla critica), il mondo tradizionale riappare ancora nei Dialoghi con Leucò di Pavese, nell’Edipo re di Pasolini, in Filosofia dell’espressione di Colli e nell’impressionante Uaxuctum di Giacinto Scelsi. Ma si tratta di segnali tutto sommato isolati e in controtendenza, perché nella fase conclusiva del ciclo le forze della dissoluzione, le Ombre, “Gog e Magog coi neri carriaggi” (G. Pascoli), sono pur sempre destinate a prevalere. La piccola ma eloquente parodia della messa con cui si apre l’Ulisse annuncia l’Età caotica prospettata alla fine del secolo da Harold Bloom come la peggiore della storia per la critica letteraria, che sarà vichianamente seguita da una nuova Età teocratica. A questo passaggio Bloom guardava con preoccupazione, nel timore che la letteratura potesse uscirne sopraffatta a vantaggio dell’oralità e dell’immagine; negli stessi anni il Northrop Frye di The Double Vision, il suo ultimo libro uscito nel 1991, ammetteva di percepire negli artisti il tipico stato depressivo che si accompagna al pathos della fine di un’era ma auspicava utopicamente l’avvento dell’Età dello Spirito gioachimita, nella quale un cristianesimo rinnovato potrebbe a suo avviso giocare un ruolo decisivo. Bloom pecca forse di troppo pessimismo, Frye di ottimismo. La sensazione è che ben difficilmente Münchhausen riuscirà a farcela senza l’intervento più o meno diretto e manifesto di rappresentanti qualificati delle tradizioni meridionali del mondo
Giampiero Marano (Salerno, 1970)