La madre
Abdalhadi Alijla
Non ho avuto la fortuna di poter osservare gli occhi amorevoli di mia nonna o il sorriso gentile di mio nonno. Le loro vite si sono spente come fiamme fragili di una candela in una folata di vento, prima che i miei primi ricordi potessero formarsi. I viticci sussurranti del mio lignaggio, pare risalgano ai paesaggi assolati della Grecia e dell’Italia, intrecciando le radici in una danza di connessioni senza tempo.
I miei antenati rivendicano ancora una fetta di mondo nell’enigmatica terra d’Egitto, ma il ramo principale della nostra famiglia ha dispiegato le sue foglie nel cuore della Palestina, nella movimentata, resistente città di Gaza. Questo viaggio è iniziato col mio bisnonno, partendo per l’Egitto dalla sua terra natale, la Grecia. Un uomo coraggioso, e poi una nave audace che dall’Egitto salpava altrove, ai tempi burrascosi della guerra anglo-egiziana del 1882.
Un faro di speranza lo guidò in quei giorni bui – una donna egiziana, forte e graziosa, che divenne sua moglie. Fianco a fianco, hanno navigato nelle acque inesplorate del loro destino, ancorando insieme le loro vite nel suolo della Palestina.
Un giorno, impresso nella mia memoria e nitido quanto il vetro, quando tu eri solo un vivace bambino di cinque anni, mi hai fatto una domanda. Aprendo il cancello scricchiolante di casa con una determinazione insolita per la tua tenera età, sei entrato al trotto, scartando le scarpe con un movimento rapido e fluido come fossi un calciatore professionista. Ti sei diretto verso di me e c’era un’urgenza nei tuoi occhi :
“Qual è la tua data di nascita?” mi hai chiesto.
Ho risposto alla tua domanda con un gentile “Perché?”
“Perché oggi è la festa della mamma”, hai risposto facendo eco alle chiacchiere dei bambini del quartiere. “Sei nata oggi, nel giorno della festa della mamma?”
“No, caro. Oggi è la festa della mamma, ma non è la mia festa,” risposi, le mie mani occupate a preparare falafel per il negozietto che avevamo aperto qualche anno prima, per aiutare tuo padre a crescerti.
Non era la mia festa, né una giornata dedicata alla mia di madre. La verità è che ho passato la mia vita in trincea, a combattere per te. Da quando è nato il mio primogenito fino al più piccolo, le mie giornate sono state un carosello di cura per i miei figli e poco tempo per i festeggiamenti personali. Le lotte incalzavano da tutte le parti, chiedendo la mia attenzione, compagna costante con cui avevo fatto pace per il tuo bene e quello dei tuoi fratelli. In questo ciclo incessante, anche il mio compleanno era svanito nel regno delle cose dimenticate.
“Quando sei nata?” hai chiesto di nuovo, e i tuoi occhi innocenti mi scrutavano mentre tenevi una fetta di pane, ricolma del rosso ardente del peperoncino e dell’esplosione fresca di pomodoro.
Mi sono fermata, le mie mani che reggevano una grande ciotola di pasta di falafel, e guardandoti con amore ho risposto: “Sanat Al-Nakba”, l’anno della Nakba, la catastrofe palestinese.
Di colpo, hai smesso di masticare, gli occhi splancati tra un misto di curiosità e confusione.
“Cosa? Nakba? Che cos’è?” hai balbettato, come se avessi visto una meteora sfrecciare verso di noi.
La parola aleggiava pesante nell’aria – una parola estranea alla tua giovane mente eppure carica di emozione nella mia espressione. All’improvviso, una risposta aveva generato una miriade di domande e la tua unica domanda ha dato vita a innumerevoli risposte.
“La Nakba”, spiegai, “fu quando delle persone venute da lontano, che portavano fucili e parlavano una lingua diversa dall’arabo, discesero nei nostri villaggi. Portarono morte e terrore, cacciando via la gente dalle loro case per venire a vivere qui in mezzo a noi”.
Sei rimasto in silenzio, elaborando le parole che ti avevano appena travolto. Per un minuto apparentemente interminabile, mi hai fissata, la bocca leggermente aperta. Poi, come scosso da un fulmine, sei saltato in piedi e con voce tremante hai chiesto :
“Hanno ucciso mio nonno?”
Sono rimasta sorpresa dalla tua domanda, non sapendo dove ti fossi fatto l’idea che tuo nonno fosse stato ucciso. “Perché chiedi di tuo nonno?”
“Perché papà mi ha detto che è morto. Mio nonno è morto,” hai chiarito.
Allora ho realizzato che nella tua mente la morte era sinonimo di omicidio, e naturalmente pensavi che chiunque fosse morto dovesse essere stato ucciso. Ho messo da parte l’impasto dei falafel, e ti ho portato vicino a uno dei materassi a fianco.
“Ascolta, tesoro. Molte persone sono state effettivamente uccise, ma non tuo nonno. Le persone possono anche morire naturalmente”, ti ho rassicurato.
L’espressione di sorpresa sul tuo viso indugiò, il tuo corpo simile a una statua, come se fossi sull’orlo del pianto. Mentre stavo per tornare al negozio, il tuo spirito curioso si è riacceso e hai fatto un’altra domanda sulla Nakba.
“E la Nakba? Dove sono quelle persone?” hai chiesto.
Un’ondata di irritazione mi attraversò, facendomi alzare la voce, “Mish Nagsaq, Nakba w zeft” (Ora va!, non è il momento della Nakba e di altre sciocchezze), dissi di scatto, le mie parole tinte di frustrazione.
Mi alzai, indicando il nostro umile negozio, una piccola estensione della nostra casa che si apriva sulla strada trafficata, invitandoti a seguirmi. A piedi nudi, con un pezzo di pane macchiato di peperoncino stretto in una mano e l’orlo del mio vestito lungo nell’altra, ti trascinavi dietro di me, prendendo a calci deliziosamente qualunque oggetto incontrassi sul tuo cammino durante il passaggio.
Una volta arrivati, ho conservato l’impasto dei falafel in frigorifero prima di prendere una sedia per te e per me. Ho fatto un respiro profondo, pronta a ripercorrere la storia della nostra gente.
“La Nakba”, cominciai, “fu un tempo in cui alcune famiglie, come quelle che ora vivono sul Muntar, o la famiglia che sta accanto alla casa di tuo zio, furono costrette a lasciare le loro case e le loro terre, e arrivarono qui soltanto con i vestiti che avevano addosso. Le loro case, le loro terre furono rubate e molti di loro furono uccisi senza pietà”.
La tua attenzione era così concentrata sulle mie parole che hai lasciato cadere il pane senza rendertene conto. Ho continuato: “Quando sono arrivati, abbiamo aperto le nostre case e condiviso con loro quel che avevamo. Abbiamo fornito cibo, vestiti e sostegno finché non hanno trovato una casa propria”.
“Perché mio padre non li ha aiutati a tornare?” Hai chiesto.
“Tuo padre era solo un bambino, proprio come te adesso. E i tuoi nonni erano impotenti contro gli invasori, perché non avevano armi”, risposi.
“E adesso possono tornare indietro ?” hai insistito.
“Per ora basta con le domande, piccolo. Chiedi a tuo padre quando torna dal lavoro,” ti ho suggerito.
Sentivo la stanchezza strattonare la mia pazienza. Non è che non potessi rispondere alle tue domande; ma non riuscivo a trovare le parole adatte per spiegare alla tua mente innocente. I bambini spesso pongono le domande più profonde, quelle che potrebbero mettere in difficoltà anche gli studiosi più preparati, non per l’ampiezza del loro sapere, ma perché guardano il mondo senza filtri, cercando risposte semplici, veritiere e concrete.
Traduzione di Luigi Toni Fabiana Bartuccelli
Abdalhadi Alijla è un politologo, sociologo e scrittore palestinese. Codirigente della Global Young Academy e cofondatore della Palestine Young Academy, è ricercatore associato presso varie accademie e centri di ricerca tra cui il Post-Conflict Research Center di Sarajevo, e il Center for Social Sciences and Actions in Beirut, dove si occupa di diritti umani. È autore del libro « Trust in Divided Societies » (Bloomsbury Academics and I. B. Tauris UK).
Fabiana Bartuccelli (Reggio Calabria)
Vive e lavora a Parigi. Si occupa di antropologia, scrittura, traduzione, sogni e soli.