L’amorosa furia

Luigi Toni
La scrittura multiforme del critico e poeta Emilio Villa è sempre stata all’insegna dell’opera nell’azione e non nella rappresentazione. La parola non deve ripetere l’opera, duplicarla, ma accettare il caos della creazione. L’arte è vitalità e differenza, libertà della creazione e dalle resistenze che le si oppongono. L’arte o è libertà o è niente. La cosmogonia sottesa alla concezione del poeta mette fuori gioco il tempo e recupera il mito. La strategia, l’amorosa furia del poeta eretico è la sua personale forma di resistenza contro il presente appiattito della civiltà contemporanea. Una battaglia fino all’ultimo contro la distruzione dell’arte ad opera dei mass media…
“La cosa più difficile è trovare un buco attraverso cui tu possa scivolare via dalla tua stessa opera. Tu vorresti essere nuovamente in un mondo libero e senza regole, che non sia stato violentato da te. Ogni ordine è una tortura, ma l’ordine che stabiliamo noi stessi lo è più di tutto. Tu sai che non tutto può quadrare, ma non ti lasci distruggere la tua costruzione. Potresti tentare di minarla, ma allora tu stesso vi saresti dentro. Invece vuoi essere fuori, libero. Nelle vesti di un altro, tu potresti scriverci contro un attacco terribile. Ma tu non puoi distruggerla. Vuoi solo trasformarti”.
[1](Elias Canetti)
“L’œuvre soustraite au jugement des hommes finit par expirer, dans d’effroyables supplices. L’œuvre considérée comme création pure, et dont la fonction s’arrête avec la genèse, est vouée au néant”.
[2](Samuel Beckett)
Non c’è un discorso critico su Emilio Villa, e nemmeno una possibilità di richiuderne l’opera.
La fluviale, magmatica, nervosa attività del poeta (traduzione ed esegesi biblica, “critica” d’arte, poesia) è stata all’insegna della disseminazione e del dispendio – nell’accezione batailliana – dell’esistenza. È per questo che non si può essere villiani, come non si può essere duchampiani, baconiani, pollockiani… Si tratta sempre di sorprendere la vita, e di (sor)prendere l’opera nell’azione e non nella rappresentazione. Bisogna essere nudi e leggeri per portare armi pesanti. Il poeta è un anti-Edipo ante litteram che resiste ad ogni forma di discorso autocratico e autoritario.
Di legge non si vive
Di legge si muore
La legge è minaccia
La legge è inganno
La legge è assassinio
Nessuno ha bisogno della legge
Leggi sempre queste leggi

Disegno originale di Emilio Villa, s.d. (anni ’70)
Allora a che serve la critica? “L’artista rimprovera per prima cosa alla critica di non potere insegnare nulla al borghese, il quale non vuole dipingere né poetare, – né all’arte, in quanto la critica è uscita proprio dalle sue viscere […] Credo in coscienza che la migliore critica sia quella che riesce dilettosa e poetica; non una critica fredda e algebrica, che, col pretesto di tutto spiegare, non sente né odio né amore, e si spoglia deliberatamente di ogni traccia di temperamento […] Così la migliore recensione critica di un quadro potrà essere un sonetto o un’elegia” [3]. Così scriveva Baudelaire nel Salon del 1846. Dal sospetto baudelairiano l’insofferenza villiana per qualunque forma di mediazione culturale diviene ancora più radicale verso la critica, verso le sue categorie storicistiche o impressioniste, verso il suo naturalismo insignificante. La presunta povertà teorica del discorso villiano non sta nei bersagli della critica e dei critici (“tribuni pubblicitari dell’ordinaria amministrazione letteraria” o peggio “terroristi burocratici”), ma nel suo congenito ritardo nei confronti dell’opera, nella sua strutturale a-sincronicità, nel suo non essere mai nel tempo dell’opera.
Dunque, ricominciamo. Non dire mai «attività critica». Ma entusiasmo, occhio, poesia. I critici sono la merda. Critica, da krino (greco) e cerno (latino) significa selezione, scelta, e il poeta eretico (usiamo l’eresia come eterodossia e resistenza al dogma del presente) rifiuta l’intera categoria e modalità della critica. La critica infatti fa questo: strappa parole all’oggetto, lo ripete in parole che non hanno più il significato, perché il significato è solo là dentro e di là non esce. La parola non deve ripetere l’opera, duplicarla banalmente, rendendola verbo, ma ricreare, stare ed entrare nel rischio dell’opera, non avere ripari, ma accettare il caos della creazione, nulla sorgivo e cosmoctono. L’opera verbale si trovava “in una posizione che in parte è parassitaria e in parte è generativa dell’arte che aggredisce e che getta […] una luce e riverberi allarmanti sull’arte che chiamiamo contemporanea (ma contemporanea a chi?)”. La parola deve delirare joycianamente (“quando c’è Joyce che ti copre l’orizzonte, il resto non ti serve”) nella forma, proliferare per arrivare alla pittura o alla scultura, che si ritraggono nel silenzio e nella solitudine, senza il mondo, facendo fuori il mondo e la parola. La parola è nello schema del circolo, della circolarità, accetta la frammentazione, la frantumazione della civiltà dell’informazione, ma nella circolarità “ricupera archetipi, segni primordiali, similitudini smarrite rispetto a una linea progressiva, storicistica, storiografica”[4]. Villa, consapevole della malattia storica, rifugge dall’eccesso di cultura storica, è profondamente nietzschiano, in senso antistoricista. L’esistenza partecipa nella sua incompiuta imperfezione della figura impossibile che è il mondo. Per ogni agire ci vuole oblio.
Ogni creazione risiede nel momento germinale, e non nell’aura dell’originalità, nel suo stato di fusione magmatica. Il dopo è stasi, mercato, esibizione, morte, conservazione museografica e museale. Bisogna cercare e tentare un’arte oltre lo spettacolo, senza lo spettacolo, in quanto ogni atto è irripetibile, non è mimesi, né imitazione, è l’Una volta! di Artaud. La creazione avviene nel superamento di sé, al di qua e al di là della coscienza, è tutta nell’atto (in senso cinematografico, è un’immagine di prima) e non nella mediazione, è istinto, pura intuizione, ma non immediatezza. Una sorta di vertigine, in cui l’uomo afferra l’oggetto della propria inquietudine, del proprio terrore. L’elemento “culturale” è rimane allo stadio epidermico, in superficie. “Non bisogna farsi illusioni su questo punto. Sono fragili convenzioni e artifici discutibili che un soffio può rovesciare e di cui i fautori dell’autenticità e dell’istinto sono perfettamente giustificati a denunciare la relativa vanità o anche l’assurdità”.[5]
Ogni artista deve tentare la propria via remota, oltre e al di là del visivo (la fisiologia è il limite in cui operare, ma è un limite che va oltrepassato, è l’abilità a rifare il già-fatto attraverso un procedimento mimetico e tecnico), oltre l’esibitorio, cercando una via verso una cosmogonia del non-visibile. L’arte non può essere ridotta esclusivamente a fisiologia (che è natura, ed è proprio dal lusso fisiologico che ogni artista deve innanzitutto sapersi liberare, oltre ché dagli incitamenti del gusto pubblico, del gusto fisiologico del pubblico), che è un atto meccanico, un umano troppo umano che svilisce e annulla la creazione, l’atto che di per sé è irripetibile, e non può essere riprodotto da altri. Bisogna pensare con le mani. Quello che ognuno fa dovrebbe essere quello che uno solo fa, e non gli altri. È questa resistenza che l’arte deve opporre al potere, in tutte le sue forme, e non ultima la critica, quel potere che tutte le mattine ci mette le mani in tasca, ci ruba tutto. Il tempo del poeta non ammette ritardo del detto, ma un dire che attraversi l’opera ne sia non un’esplicazione o un’esegesi ma una cosmogonia, ne tragga come da un blocco unico un mondo.
e l’universo è qui, qui solamente a un pelo,
l’universo è qui, a un pelo di ciglio
L’arte è vitalità e differenza, nella sua scelta di libertà, libertà della creazione e dalle resistenze che le si oppongono. L’arte o è libertà o è niente. L’arte è differenza dal passato (conseguentemente non esistono né preavanguardie né postavanguardie né tantomeno transavanguardie), che resiste alla falsa eternità museografica, o alla critica che accorre, come un becchino al capezzale (“Essendo la morte, arriva quasi sempre, la morte di ogni attività vera e libera”), solo quando non c’è più arte né creazione. La critica arriva quando l’arte, colta da improvvisa afasia o sfiducia nella propria solitudine, chiede di prestarle le parole, come una giustificazione, un’illusione di uscita dal terrore, dall’orrore del mondo bianco. L’espressione artistica è tormentosa e comporta il sacrificio di sé, la cancellazione del sé. Rimane solo il dolore, come laconicamente rispondeva Burri alle richieste di esegesi circa le proprie opere.
Villa intendeva l’arte all’insegna del sacrificium, inteso come riscoperta dell’universo simbolico dell’uomo primordiale (accezione che Villa intende in senso antistoricista), che potesse ridar forza ad un segno vissuto nella sua immediatezza, e non nell’accezione devitalizzata e decaduta dell’uomo moderno. Noi cerchiamo un equilibrio che la cultura dell’estetismo ha avariato o rovinato addirittura. Il segno come Nutrimento, non più teso a descrivere o comunicare, ma come celebrazione di un atto violento come quello dell’uccidere, in cui l’uomo partecipava alla dimensione del Tutto. L’unità dell’azione interiore è l’unica regola capace di comunicare il massimo di vitalità alla verità.
L’uomo primordiale non imita, non rappresenta l’animale (non è forma, ma oscillazione del contorno, del periechon), lo ha dentro di sé, se ne libera, per sacrificarlo e restituirlo alla vita, uccidendolo, con il segno, attraverso l’inscrizione dell’amigdala scandisce la natura ritmica dello spazio, si esprime attraverso il proprio furor scatenato. Il sacrificio genera la vita, e la vita, attraverso la violenza, genera il sacrificio nell’indifferenza del tempo, che non va diviso, non suddiviso, non analizzato perché l’uomo non si arresta, ma fluisce attraverso ogni azione. La scoperta del segno primordiale diventa memoria indelebile del segno (segno libero dallo stesso mondo interiore nel quale e per il quale è nato), con cui le nonne del poeta firmarono fino alla morte, segno elementare, primitivo, ma carico di significati e presagi.
Sub specie aeternitatis il tempo del prima e del dopo non esistono. La cosmogonia sottesa alla concezione villiana mette fuori gioco il tempo e recupera il mito, in una concezione temporale simile all’aìon degli Stoici. L’eternità implica anche l’abbandono della storia come sbaglio continuo, che non si ferma e non si stanca mai di sbagliare, rifare, di rivedere, di ricredersi, di affermare oggi, per rimangiarsi tutto domani. Non c’è il qui e ora (che è vano), le epoche trapassano e parlano attraverso le opere. Né qui, né ora, né ovunque, né mai, ma un inizio che si identifica con l’insorgenza del mito, traendo dal fondo dell’abisso umano il grande oscurissimo prorompere degli enigmi operanti.
La scelta della lingua, con l’italiano, che da Bruno e Vico in poi non ha più prodotto pensiero, sentito come lingua nemica e straniera, perché esangue, non regge la possibilità, il poeta preferisce barattarla con il latino (“io ti dico in suono latino, così simile al sangue lombardo”), il dialetto milanese, il francese (che ostenta di parlare malissimo, come un negro di Dakar che fa la quinta elementare). “Ma io credo che bisogna scrivere, o dipingere, in pectore, in ore, in aenigmate, in simbolo, in speculo, in vacuo, le sole strade verso l’apertura, i soli strumenti di scandaglio”. La parola è fatica, sacrifium come il farsi dell’opera, pòtmos àpotmos. La parola poetica inanella rime che si accavallano come i gettiti del Destino secondo i numeri della ruota astrale. Combinazioni ritmico-fonetiche spericolate al limite della glossolalia.
Lo gnosticismo della presenza degli eoni che rimandano a spazi e tempi di natura ostruente e maligna che non ci separerebbero dalla Luce della vera vita preparano l’accettazione dell’ospite più inquietante secondo Nietzsche, il nichilismo, che trova in Villa il proprio centro, in una concezione del nulla come centro del mondo. Il mondo è una figura, una figura impossibile in se stessa […] è la figura dell’impossibile.
Villa trova nel materiale devitalizzato depauperato imputridito consunto e già coartato dal deperimento dell’opera di Burri (“mitografo urbano”, chirurgo materico di razza quasi alchemica) una straordinaria pittura dell’ultimo giorno. Ecco un’opera che poteva essere compiuta oggi soltanto, non ieri, non domani, con una cicatrice così segnata del tempo soltanto oggi.[6] Un’opera fluida (fluxus sanguinis), plastica, sorgenza di un r aptus/r actus, che non rappresenta più staticamente, ma crea facendo, attraverso un operare incessante e faticoso. Una lamentosa cosmogonia, una cosmogonia del non-visibile attraverso l’utilizzo dei materiale più usuali e poveri, quotidiani, dagli stracci alle vernici, dalle plastiche alle colle, dalle muffe ai sacchi, dagli asfalti ai legnami, dalla yuta al nylon. Ferimenti e mutilazioni della materia (vita contraria, caotica) o della polimateria, combustioni e tagli operati nel caos per trarne forme. Il tutto che si tiene nella grande invenzione dell’opacità, dell’opaco estratto dagli altri colori. Il mondo allo stato puro, il mondo della creazione sul mondo del dato e del creato. Esplosione d’energia tellurica. Non rappresentando, ma facendo. Questo io dico: bisogna fare. Pittura dell’ultimo giorno, sguardo infinito sulla fine del mondo. Una pittura come immaginazione del dopo, di un di più del mondo, un ulteriore angolo o lembo di terra da scoprire e bruciare nello stesso istante in cui ci si è messo piede. Nemica dell’immobilità, la pittura è flusso, è il fiume, il fluidofiume (riverrun) joyciano.
sulla materia più povera / più accessibile / più facile /
le parole del (..) silenzio quotidiano ..
né materia (pittura) né parola (poesia) sono importanti (..) /
è importante il gesto istantaneo / automatico – anatomico /
che le collega ..
Villa continuerà, anche nella depressione culturale degli anni Ottanta, ad insistere sulla pittura come azione, creazione di un’idea nello spazio, nel mondo, in quella strana figura dell’impossibile. La battaglia dell’arte, che è sempre sotto pressione, è liberare dall’oppressione, dalla mancanza di libertà. Finché l’arte rimane oppressa, essa è nulla. I grandi espressionisti americani Rothko, Pollock, Gorky, Kline l’avevano compreso prima degli altri. Un evento del vuoto, una ricaduta nel vuoto dopo aver aperto una strada nuova dell’arte e un nuovo rapporto della forma come materia con la materia come forma.
Silenziosa è la Percezione
E ancora più silenzioso avviene il Pensiero.
La prospettiva del buco è la prospettiva dell’eterno. Sibille e Trous diventano quindi i segni che permettono di parlare del mondo della creazione, di fronte ad un mondo del creato che si chiude. Bisogna aprire, aprire. Una rivoluzione incompiuta, quella di Villa che, non riesce né poteva riuscire a ribaltare con le sue sole forze un terreno antropologico e una restaurazione a cui avrebbero concorso in troppi. Isolato e poco incline a qualsiasi forma di compromesso o cedimento, vede lo sfacelo dello spettacolo integrato. L’impossibilità di possibilizzare e di tornare ad aprire. La battaglia del politico (campo in cui il poeta anarchico da sempre non si è mai misurato) è perduta e forse anche quella dell’arte, intesa come relazione con il sacro, con un oltre, un al di là del mondo.
La strategia villana, l’amorosa furia dell’eretico che combatte la sua battaglia contro i farisei dell’arte, non ha retto all’aprés déluge, al disastro del presente, alla restaurazione che avrebbe invaso e occupato ogni spazio. All’epuisé, al poeta esausto rimane ancora però la furia orgogliosa con cui si oppone, e oppone il proprio rifiuto al presente appiattito, alla distruzione anche del più piccolo terreno sotto i piedi per poter sopravvivere: Siamo veramente tutti distrutti, loro compresi. Se distruggere l’arte, come fanno i mass media, è la conclusione della civiltà contemporanea, bé, cerchiamo di batterci fino all’ultimo. Cerchiamo di resistere, di stare in piedi.
Più salivo in alto
Più il mio sguardo s’offuscava
E la più aspra conquista
Fu un’opera di buio;
ma nella furia amorosa
ciecamente m’avventai
così in lato, così in alto[7]
Luigi Toni
Scrittore e traduttore italiano. Dal 2021 (in corso) collaborazione alle pagine italiane della piattaforma online OrientXXI fondata in Francia da Alain Gresh